Gli storyteller selvaggi e la fine del giornalismo

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    Oggi il marketing aziendale, politico e pubblicitario dopo qualche anno di celebrazione dei contenuti come unico vero valore aggiunto agli algoritmi delle piattaforme digitali, gridano alla fine delle storie. Lo storytelling, cioè l’arte di comunicare in modo persuasivo attraverso il racconto di una storia, è quindi approdato in Italia nella sua versione più trash, ovvero nel format narrativo dello storytelling pubblicitario, della narrazione politica populista o della semplice narrazione di impresa (storytelling management).

    Questo stratagemma, come affermato nell’articolo di Bonini sullo studio di Salmon, sarebbe nato nella condizione post-moderna della fine delle grandi narrazioni, in cui si doveva rispondere ad ogni costo al vuoto narrativo prodotto dalla “fine della storia”.

    L’opinione pubblica si sarebbe così riempita di storie private e destini generali fino a quando anche il viaggio dell’eroe, la storia dallo storytelling perfetto, non avrebbe più suscitato nessun interesse.

    Quel momento, indicato con la campagna elettorale di Obama del 2008, avrebbe decretato l’età dell’oro dello storytelling ma anche la sua definitiva fine e la nascita di una nuova fase frammentata.

    Lo storyteller selvaggio ci cattura, ci persuade e addirittura ci fa innamorare, non sempre volontariamente, ma per una forma di automatismo all’espressione di sé come necessità o forse obbligo.

    Tuttavia, prima di arrivare alla deriva dello storytelling, che nel caso americano ha in realtà una storia nobilissima che vede le sue origini nelle culture orali dei nativi d’America, c’è da fare un ulteriore passo indietro, verso due destini che oggi più che mai sembrano fondersi in un unico ibrido: giornalismo e letteratura.

    Quando nel 1833 Benjamin Day decide di caricare di senso eventi mai visti prima tra le gazzette ufficiali economiche e politiche come omicidi, stupri e tradimenti si capisce che parlando alle viscere dei lettori, le notizie potevano assumere un valore mai avuto prima.

    La penny press infatti poteva essere venduta ad un prezzo così basso proprio grazie all’attenzione dei lettori incuriositi ( spesso anche da storie totalmente inventate) rivendibile a quelli che potremmo definire come i primi inserzionisti pubblicitari; questo esatto processo è lo stesso che ha portato al fenomeno del clickbait del giornalismo online e soprattutto allo storytelling giornalistico verso particolari filter bubble, ossia delle vere e proprie sfere di interessi generali attraverso cui siamo suddivisi in rete e verso cui una particolare narrazione genera più attenzione e quindi più profitto.

    Gli inizi dell’Ottocento sono anche anni importanti per un genere che si distacca dalla poesia, dall’epica classica e dalle opere di carattere storico per raccontare storie più vicine alla nostra quotidianità, con personaggi e avventure in cui potessimo immedesimarci: il romanzo.

    Da questo momento in poi qualsiasi storia, anche se privata e apparentemente priva di senso, se raccontata con una certa forma narrativa potrà essere interessante per un ipotetico lettore.

    La narrazione in rete in questo senso potrebbe essere vista come figlia di due culture: una che potremmo definire “ufficiale” ed una che potremmo definire “pop”; nel corso del tempo questo due categorie apparentemente distanti si sono ibridate, scambiate, contaminate.

    Contaminazione è forse la parola chiave per capire questo nuovo territorio: contaminato era il primo giornalismo ufficiale che si mischiava alle prime forme di citizen journalism, blog e redazioni online; contaminata la letteratura cannibale degli anni Novanta che iniziando ad imitare i tempi della televisione e del cinema ha preparato il territorio per una nuova narrazione frammentata.

    Contaminati i toni della politica imbonitrice, disposta a depotenziarsi nel linguaggio – e negli intenti – pur di viaggiare accanto a più elettori possibili. Ecco che in questa presa di parola generalizzata, in questa struttura rizomatica e priva di centri, si apre il terreno fertile per quelli che ho voluto chiamare gli storyteller selvaggi.

    Freud definiva psicologia selvaggia tutte quelle teorie e tecniche interpretative di psicoanalisi messe in atto da analisti non sufficientemente preparati o addirittura da non addetti ai lavori.

    In questo senso la rete è tempestata da psicoanalisti alle prime armi: ognuno, come può, dice la sua su particolari tematiche più o meno importanti. A volte con toni esilaranti, a volte con molto più rigore delle informazioni ufficiali, altre volte accumulando un’idiozia dietro l’altra. Questa voglia di raccontare anche senza tutti gli strumenti del caso, per questo selvaggia, produce un universo di microstorie, micronarrazioni e opinioni che alterano totalmente la percezione generale dell’opinione pubblica e producono una certa abitudine nei confronti delle storie come mezzo per esprimersi.

    Scrive infatti Mazzoni parlando de i Detecitve Selvaggi di Roberto Bolaño, uno dei romanzi che meglio ha saputo interpretare la dispersione e l’esplosione delle storie e delle trame della nostra contemporaneità: “Se il rizoma è il modello di rapporto fra il tutto e le parti egemone nel nostro tempo, nessuno scrittore contemporaneo ha saputo introiettare questa forma nelle proprie opere meglio di Bolaño. Nei suoi libri l’esigenza di condurre la pagina da qualche parte confligge di continuo con movimenti dispersivi: i narratori e i punti di vista si moltiplicano; il «filo della storia», quello che per Musil è il segreto regressivo di ogni narrazione, «l’eterno trucco […]col quale persino le bambinaie calmano i loro piccoli», viene allargato e disturbato dai dettagli, dalle digressioni, dagli eventi secondari, dagli incontri senza seguito.”

    Come le investigazioni naif dei personaggi di Bolaño, in cui le indagini vengono portate avanti da poeti dai tratti loschi, violenti e schizzoidi che si comportano come investigatori, in modo del tutto casuale e privo di senso, anche gli storyteller selvaggi interpretano dati ed elaborano grafici, ricostruiscono scenari politico economici e ancora, dispensano consigli e soluzioni su possibili nuove cure e vaccini.

    L’informazione sembra in mano quindi a giornalisti indisciplinati e burloni, ibridati con blogger più o meno informati, ma soprattutto a professionisti di qualsiasi settore che sentono il bisogno e il dovere di prendere parola ed esprimere la loro opinione attraverso il racconto di una storia. In questo vuoto dell’informazione ufficiale, con il giornalismo intento a curare le varie filter bubble per ingozzare gli inserzionisti con l’attenzione dei lettori, lo storyteller selvaggio è colui che crea appositamente una narrazione e una storia per attirare la nostra attenzione verso un particolare argomento.

    Lo storyteller selvaggio ci cattura, ci persuade e addirittura ci fa innamorare, non sempre volontariamente, ma per una forma di automatismo all’espressione di sé come necessità o forse obbligo. Lo storyteller selvaggio è lo youtuber che ci racconta del nostro preciso interesse specifico, è l’influencer che fa lezioni di yoga gratis e spiega i benefici di una dieta sana abbinata a particolari integratori di cui ha il link del sito in bio, è la tiktoker diciasettenne da milioni di views che racconta della sua giornata a fare un tampone o di come sta affrontando una fase depressiva e di asocialità; selvagge sono le dirette Facebook, Instagram e Twitch, che si allungano all’infinito, diventando narrazione in contemporanea, interattiva e modificabile, “tokenizzabile” (monetizzabile in gettoni) ,   in cui tutti il pubblico non solo ascolta e condivide ma diventa anche micro-autore ( o micro-finanziatore)  del racconto.

    In questo senso l’influencer marketing non è altro che una comunicazione aziendale selvaggia, affidata ad un “non addetto ai lavori”: banche online si litigano youtuber da milioni di follower come Luis Sal, la Subaru usa uno sketch storico di Aldo, Giovanni e Giacomo per cavalcare l’ondata di meme che ha prodotto, il selfie della Ferragni agli Uffizi crea un caso quando in una settimana genera il 27% in più di visite di under 25.

    Spesso quindi, la narrazione proviene da esperti in un determinato settore come un medico o ingegnere, ma non da giornalisti o scrittori, narratori sprovvisti cioè, degli “strumenti” che invece dovrebbe contraddistinguere un operatore culturale.

    Certamente mai come in questo periodo storico il nostro soggettivismo, la nostra forza di dire io, ha avuto così tanta voce. Il rischio è quella di una percezione delle informazioni in rete caratterizzata dalla precarietà dei contenuti, di un universo dominato dal caso e dal predominio dell’anarchia e dalla violenza informativa su tutto il resto.

    Ancora oggi il principale problema della struttura orizzontale di internet rimane la facilità con cui riesce a diffondere una notizia e la dannosità che una tale notizia se fake può apportare al tessuto informativo, libera di circolare in una struttura concepita per accelerare diffusione e negare l’oblio.

    In definitiva, non si può rispondere almeno non in maniera completa, se c’è ancora una speranza per le storie, per l’interesse nei mondi possibili, dei giochi linguistici.

    Sicuramente è in crisi la figura di quello che Jarvis chiama il giornalista come “servitore della società” come colui cioè che non si limita ad un atto giornalistico che a questo punto potrebbe essere compiuto da chiunque sia in grado di generare una notizia, ma cerca di trattare questo bene come uno scambio, un servizio che deve svolgere in modo professionale e strutturato. Ma ancora di più del giornalista, dello scrittore, del politico e dell’intellettuale come detentori “unici” della parola.

    Possiamo allora continuare ad allentare i nessi e la dispersione, nebulizzare le storie e le notizie verso una atomizzazione infinita arrivando ad una narrazione mondo collettiva senza autori, regolata solamente da sistemi predittivi di intelligenza artificiale e algoritmi in quello che Foucault chiamava “l’anonimato del mormorio”; verso una forma cioè di anarchia della cultura regolata solamente da policy, filtri di interesse, trend.

    Oppure, possiamo scommettere sulla complessità. Puntare sulla struttura delle forme e delle parole ed allinearle a nuovi modi di raccontare.

    Immaginare lo storytelling, la letteratura, il giornalismo, l’arte come organismi così complessi da essere in grado di fagocitare nel loro ventre narrativo abbacinante e labirintico le cattive microstorie, le cattive micronotizie, le fake news, la noiosità e la ripetizione della pubblicità; e i giornalisti, gli scrittori e tutti coloro che vogliono raccontare una storia invece, come coloro che hanno il compito di farci uscire da questo dedalo e non di farci perdere.

     

    Immagine di copertina: ph. Jakayla Toney da Unsplash

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